Pisa (Italia) /3
7 Dicembre 2011
Siamo sempre nella zona dell’università, e una serie di quelli che sono visibilmente dei rampolli della Pisa-bene devono aver appena sostenuti esami di laurea. Accompagnati a donne (mamme?, sorelle?, amanti dei padri?) opulentemente appariscenti in tailleur, tacchi a spillo, gioielli d’oro e messe in piega perfette a incorniciate visi al botulino, escono dall’ennesimo palazzo della facoltà suddetta e si incamminano nella mia medesima direzione.
La sottoscritta si prende tempo per mantenere le distanze e poter continuare in pace a perdersi tra suoni, particolari visivi e odori – e nota una piccola scritta che si ripete qui e là sul muro come fosse il decoro d’una tappezzeria: “Fuck Austerity” recita, con tanto di stella e saetta dell’autogestione. Un messaggio che nella mia vita ho superato credo intorno al 12 anni. Sorrido e vado oltre.
La meta, o meglio ‘una’ meta, della giornata è vicina: una strada pedonale su un lato della quale s’aprono i dehor di caffè che propongono menu turistici a prezzi improponibili m’indica che ci siamo. E in effetti arrivo e vedo i tre monumenti in questione: nell’ordine, da sinistra a destra, battistero, campanile e torre.
Strana sensazione: ho studiato questi edifici alle medie, e l’isterica che ci insegnava disegno ci fece ogni genere di manfrina sui decori delle porte. Poi, alle superiori, rimanemmo bloccati due settimane dalla nuova isterica docente di storia dell’arte sullo stile architettonico, sulle colonne, e su tutti i vari orpelli e decorazioni.
E ora io, in questo istante, non ricordo più nulla – vuoto assoluto – mentre mi trovo a sorprendermi – con una certa delusione – nel verificare che nella mia mente la distanza spaziale tra i monumenti era ben più ampia: ciascuno di questi aveva spazio per esprimersi per bene, mentre qui li trovo accostati uno vicino all’altro, a soffocarsi reciprocamente.
Si può provare pietà per loro perché non hanno spazio per ‘respirare’? E perché sento le cose come fossero vive? In ogni caso, è ciò che sto provando, e questa sensazione occupa metà della mia mente.
L’altra metà della mia attenzione è rivolta ai turisti – un’antropologa, sono proprio un’antropologa! Un coro di “kawai” e “gorgeous” mi circonda, per non parlare del fatto che nell’arco di 30 secondi in cui ho guardato i monumenti in questione sarò stata immortalata almeno in – realisticamente – su per giù 500 fotografie.
E qui invece ricordo tutto: tutti i testi sul perché il turista fotografa compulsivamente, sul perché tra i vari turisti i giapponesi siano tra tutti ancora più compulsivi, sull’estetica diversa nelle diverse culture per cui i ricordini dalle città d’arte italiane che noi troviamo orripilanti in realtà siano così apprezzati dagli americani e via dicendo. E mi viene in mente Duccio Canestrini e la sua ricerca sul souvenir che qui trova solo conferme, una dopo l’altra, con stand a perdita d’occhio, come a perdita d’occhio sono i turisti che li affollano – bulimici di ricordi.
E un’ultima immagine, quella del mercato del bestiame come ritratto in Africa centrale negli anni ’70 da Ivo Strecker, dove le dimensioni dell’ultimo bue, in lontananza, erano nell’immagine di grandezza pari a una formica.
Ecco, questa la percezione dei miei occhi, nel pieno di questo ordinatissimo – ‘normato’ – casino.
Mi allontano – sono certa che pure pagassi l’ingresso o mi avvicinassi ai monumenti, la mia idea di piacere è ormai troppo distante e diversa dal farmi incantare ancora da questi, per quanto sono sempre incantata quando vedo simmetrie, geometrie e colonnati. Ma credo che questo sia dovuto alla ricerca di regolarità da parte della mia mente e a un’ attitudine tecnica che ho troppo trascurato nella vita, e che ora penso avrei dovuto maggiormente soddisfare.
Proseguo la camminata tornando piano piano verso il centro e poi la stazione, in un movimento in cui non intendo ripercorrere però le strade precedenti e quindi, a occhio, mi oriento nella direzione che mi interessa attraverso percorsi nuovi.
Oltrepasso convitti cattolici visibilmente pacificanti, e lo faccio cristonando sul perché la Chiesa debba avere tante ricchezze e squallidamente fingere di prendersi cura dei bisognosi – un impero finanziario costruito infingardamente sulla pelle dei più fragili – cui basterebbe fare una bella occupazione accompagnata a espropri per risolvere buona parte dei problemi del mondo.
“Esproprio proletario” – imparai quest’espressione durante l’occupazione all’università, ormai più di vent’anni orsono, quando parimenti sviluppai un malcelato disagio nei confronti del pensiero comunista, per quando vi riconoscessi il positivo della solidarietà sociale. E mentre ricordo, davanti agli occhi una scritta su un muro visualizza esattamente il pensiero che ho nella mente:
Pisani, non avete carte e penna voi? Ché continuate a scrivere sui muri! Non che non ve ne siano anche altrove, di scritte su muri/monumenti/ecc., ma qui – dove ho evitato di fotografarne già parecchie e mi sono concentrata solo su quelle che ho ritenuto più interessanti – è una cosa continua, quasi fosse proprio una specifica prassi di comunicazione tra voi!
No, non ce l’avete.
Pure i manifesti programmatici e indicazioni chiare e precise alla cittadinanza vi ci scrivete. Bene, evidentemente funziona.
(continua…)