Se dovessi vivere in questa città, verrei qui ogni giorno alle 19.00, quando cominciano le due ore quotidiane di apertura gratuita, e ogni sera la dedicherei a visitare una singola sala del museo. Troppo pesante vederle una dopo l’altra, in continuità: la mia mente sovrastimolata necessita riposo.
E i miei sensi… Quelli si sono persi nella stanza 406.
Cammino con il passo da museo di cui parla Banksy. Fatico a stare dietro alle opere – decisamente troppe perché non diventino un assordante rumore visivo. Quel poco che attrae la mia già dispersa attenzione è soffocato da targhette, parole, immagini, e dal vociare, muoversi, correre di persone sguaiate intorno, lì presenti per poter dire d’esserci state.
Finché giungo alla stanza 406, dove dipinti densi e materici di grandi dimensioni in bianco e nero sembrano precipitare il mio sentire di questi giorni e farmi indugiare nel goderne compulsivamente.
Non c’è nessuno.
Nel silenzio e nella solitudine mi fermo davanti alla prima,
N. 179 di Luis Feito.
Così ampia da contenere le mie braccia aperte. Così eruttiva, con il colore che esce dalla superficie piatta per venire verso di me.
Ammaliata, blandita, abbracciata, vi cado dentro e mi lascio risucchiare e metabolizzare mentre sento un fluido caldo attraversarmi il corpo e finire tra le gambe.
Un uomo sul quale io mi distendo, che quando si sposta e mi passa sopra mi ingloba del tutto dentro di sé. Un corpo in cui entrare, e riposare.
Non mi riesco a staccare, ma come amanti che ti allungano la mano e porgono il braccio per chiamarti a sé, le altre opere della sala mi cercano e libertina qual sono mi lascio persuadere.
Superposición de materia gris di Antoni Tapies reclama attenzione ed eccita il mio tatto per la sua freddezza.
Non posso, ma vorrei così intensamente toccare la superficie del cemento, percorrere con il palmo della mano le sue scanalature e le sue imperfezioni, infilare le dita voluttuosamente nei suoi buchi – mentre mi chiedo se il calore del mio gesto potrebbe farlo sciogliere, renderlo nuovamente liquido.
Cuadro e Cuadro 1957 di Manuel Millares intercettano il mio desiderio – perversi e astuti. Ho notato l’occhiata d’intesa che si sono lanciati, ma fingo di non aver visto nulla. Voglio farmi sedurre, sto al gioco.
L’uno si manifesta con cicatrici sottocutanee che mi fanno venire voglia di annusarle e leccarle mentre le percorro con le dita, l’altro stimola la mia mente e mi richiama il bondage – la sensazione della corda sulla pelle, dei nodi, dei legacci che quando vengo sciolta mi abbandonano lasciandomi strisce rosse come di una medusa nella carne chiara.
Dio, quale piacere!
La stoccata me la dà Estructura Espacial di Manuel Rivera, una griglia-gabbia in cui intenzionalmente entrerei, lascerei che il mio corpo si perdesse, mi aggrapperei nuda per farmi guardare, baciare e scopare.
Una griglia eccitante in fil di ferro, con – ben nascosti – nodi e spuntoni che si manifestano a tradimento.
Un lieve masochismo – o meglio: un dolore da esperire solo sino a quel limite prima e dopo il quale è dolore, ma che in quel punto, quel solo punto, coincide con un estremo piacere.