CRISTINA BALMA-TIVOLA

KRI "muovere [k] liberamente [ri]" | STI "stare [s] in moto [ti]" | NA "effetto [ā] del soffio vitale delle acque [n]"

Continuo a stare con gli anarchici (e non è ‘martirio’, né ‘utopia’)

Un’altra cosa che mi è stata detta ultimamente è che io avrei una spiccata tendenza al ‘martirio’, affermazione cui ho risposto: “forse, d’altronde arriviamo tutti da questa maledetta cultura cattolica”. La giustezza di entrambe le considerazioni, però, non mi ha convinto neanche nel momento stesso in cui io e il mio interlocutore le abbiamo scambiate.

Non vivendo nei libri sul pensiero anarchico, ma esperendone la concretezza nell’azione, spero mi scuserete se non articolo un discorso dotto pieno di citazioni in ciò che vi sto per dire.

Essere anarchici e/o utopisti (ché le due cose non vanno a braccetto più di quanto non vadano a braccetto pure comunismo+utopia, visti i regimi cui ha dato luogo l’applicazione concreta di quella prospettiva) non significa essere ‘martiri’.
Nel pensiero anarchico il sacrificio di sé è una solenne menata. Ma c’è sicuramente una cura degli altri estrema, e non potrebbe essere altrimenti, perché – se rifiuto di delegare la gestione delle relazioni interpersonali e sociali a un organismo di controllo esterno (uno stato, un corpus di leggi) – mi devo di converso prendere la responsabilità e l’impegno a oltranza di stare in prima persona dentro quelle relazioni interpersonali trovando di volta in volta modi e strategie per risolverle autonomamente, sostenendo la necessità di sicurezza dei più deboli e insicuri affinché possano esercitare la propria espressività come persone e cercando in ogni modo possibile di arginare gli effetti collaterali dell’espressione individuale di altri quando potenzialmente dannosa per la comunità.
Non c’è alcuna attitudine al martirio, in questo, né alcuna utopia: c’è al contrario proprio la concretezza dell’amor proprio, e la consapevolezza che – affinché tale condizione di benessere per tutti sia realizzabile – sia necessario prendersi responsabilità quotidiane, pensare in termini ‘circolari’, impegnarsi/sforzarsi a oltranza senza cedere mai alla stanchezza e alla demoralizzazione del frequente fallimento. Non è martirio né utopia: è l’assunzione della responsabilità delle proprie scelte.

Chiaro: è molto più facile spegnere le mente, e non prendersi responsabilità se non in apparenza e/o nella fase iniziale, col mettere una crocetta su un foglio (e delegare) o una firma su un contratto (indipendentemente poi dallo starci dentro o meno)*. Ed è anche molto più comodo, così si lascia la responsabilità della gestione della nostra medesima sopravvivenza e articolazione delle nostre vite, come esseri umani, ad altri – cui riconosciamo la competenza per fare quello di professione.

Magari, nelle ipotesi più felici, è vero che ci guadagno la sopravvivenza, ma io non riesco a non vedere con orrore e terrore ciò che perdo, piuttosto, in questo scambio! Ed è l’orrore e il terrore di ciò che perdo la molla per cui piuttosto reagisco ammazzandomi di fatica, ma continuando a prendermi la responsabilità e l’impegno in prima persona sviluppando man mano competenze di ‘soluzione del conflitto’ pur se non sono una specialista della ‘mediazione’ e senza volerlo diventare (o piuttosto non più di quanto tutti, in un sistema del genere, dovremmo diventarlo!).

Riporto due esempi concreti di applicazione dei due modelli (e di quella che sarebbe stata la critica al primo secondo Emma Goldman) per darvi un’idea della differenza – se non proprio della contrapposizione – tra le due prospettive.
Caso 1. Anni orsono mio padre andò a Cuba, quando aprirono l’ingresso ai turisti occidentali. Lui, che è una persona acuta, ma né simpatizzante né avverso ad alcuna ideologia in particolare, fu molto colpito dalla presenza in albergo d’una signora già anziana, in vestito come da casa e ciabatte, che seduta su una sedia in ascensore era incaricata di premere il pulsante dei piani per conto dei turisti. Il senso della cosa era che a tutti dovesse essere garantito un lavoro, e pertanto uno stipendio per poter vivere – quindi se il lavoro non c’era o non era necessario, ce lo si inventava pur di garantire a tutti la possibilità di sopravvivenza per il tramite d’un salario.
Trovai a dir poco aberrante questo caso. Pensai a quella donna che aveva passato molta della propria esistenza in un ascensore, con le porte che s’aprivano e chiudevano, almeno per parte delle ore del giorno che alla fine sono giorni, settimane, mesi, anni di vita. Per cosa, per soldi? Da spendere per comprare generi alimentari o altro, fuori di lì, e cercare di costruirsi una qualche vaga esistenza nel tempo libero, magari ricadendo nelle uniche soluzioni che la divisione tempo libero/lavorativo può permettere (un hobby, una relazione sentimentale, qualche divertimento)? Mi sembrò mostruoso.

E mi chiedo: questa è vita? E anche: ma per vivere una vita del genere, non conviene piuttosto che mi ammazzi e la finisca lì? Che senso ha?

Sento Emma Goldman urlare contro le sue accusatrici che la soluzione non è lottare per ottenere giornate lavorative di 8 ore (per salari da fame) piuttosto che 10 in fabbrica – il tutto per poi correre a casa e fare da serve a figli e coniugi che sono stati loro imposti socialmente per assumere lo status onorevole di ‘donne sposate’. La sento urlare contro l’accusa di snobismo quando lei in realtà insiste disperatamente che si pensi al senso e alla qualità della propria vita – alla vita in ogni istante!

Perché il guadagno di quella donna in cambio di ore, giorni, settimane, mesi di vita nel buio di un ascensore non giustifica in alcun modo l’alienazione e la violenza istituzionalizzata ch’ella ha subìto per poter in cambio sopravvivere. Forse sarebbe stata più felice le avessero lasciato la possibilità di stare magari nei campi, in una piantagione di canna da zucchero, a distillare rum e morire giovane, ma libera e dopo una vita intensa, piena di sole, aria e buoni frutti della terra! Oppure a non fare nulla, perché i pulsanti dell’ascensore il turista se li può anche pigiare da sé, e se una collettività è tanto ricca da poter permettere di vivere gratuitamente parte o tutta la propria esistenza ad alcuni dei suoi membri, perché non dare loro questo dono gratuito, o pensare a una ‘rotazione’ di incarichi che ci permetta di vivere un tempo libero così enormemente dilatato che un paio d’ore al giorno di lavoro non siano neanche uno sforzo, ma un intercalare dell’ozio?

Il ‘lavoro’, quando imposto come obbligatorio o visto come valore positivo per forza per tutti, è una violenza. In uno stato di natura si potrebbe vivere cibandosi dei frutti spontanei della terra, con il contraltare che magari dopo un po’ non ce ne sarebbero più e quindi si schiatterebbe giovini, ma in uno stato di natura ciò non sarebbe parimenti possibile in quanto i territori (e quindi i beni spontanei disponibili) sarebbero molto più estesi, non delimitati in alcun modo dalla ‘proprietà’ di alcuni, e infine regolati secondo i cicli di rigenerazione naturale, quindi anche gli umani la smetterebbero di figliare a oltranza e in modo non sostenibile per la rigenerazione naturale del pianeta! Ci sarebbe un equilibrio!

Preferisco di certo questa prospettiva libera e responsabilizzante della mia stessa sopravvivenza a qualsiasi pappa pronta che mi imponga una soluzione dall’esterno e mi rubi quella che alla fine è la vita. E preferisco morire nel tentativo che ciò accada – e visto che periodicamente sto male anche per questo vi assicuro che sto parlando molto seriamente – piuttosto che accettare questa modalità di sopravvivenza.

Caso 2. Conosco da anni un giovane uomo che ha problemi psichiatrici (schizofrenia) il quale frequenta i centri sociali anarchici torinesi. Non è in alcun modo pericoloso, abitualmente, essendo anzi una persona di grande lucidità e cultura, nonché attivo culturalmente e politicamente in prima persona su più fronti (tra i quali, chiaramente, quello dell’antipsichiatria). Orbene, pur lottando – nei momenti in cui sta bene – contro il sistema tradizionale di intervento offerto dallo stato per quelli nella sua condizione (psicofarmaci, ospedalizzazione per più mesi, rottura delle possibilità di relazione con l’esterno ecc.) e proponendo appunto ipotesi di soluzione e modelli alternativi presenti in altri contesti culturali oppure innovativi ma molto faticosi, dispendiosi, lunghi e impegnativi (per quanto meno invasivi), quando sente arrivare la crisi successiva sa che ha qualche giorno per farsi ricoverare e lo fa volontariamente – contro tutto ciò in cui crede – perché quella è l’unica soluzione attualmente a sua disposizione per non essere pericoloso per gli altri.

Al di là dell’indubbio rispetto che per me merita uno che agisce così, vi racconto il caso particolare di una sera in cui – nel ristorante settimanale di un centro occupato – ci ritrovammo in 7-8 persone reciprocamente sconosciute (ma che condividevamo grossomodo certi ideali etico-politici, così come l’amicizia con lui) a sederci per caso al medesimo tavolo circolare in cui c’era lui, che di norma è pure un guascone che tiene la scena. E mentre ci servivano da mangiare vedemmo che man mano lui si stava innervosendo, e stava diventando silenziosamente sempre più aggressivo verso un ‘qualcuno’ che quella sera aveva preso di mira come responsabile di un tot di suoi mali. La sensazione condivisa fu che stava montando un caso basato sul nulla – era come se gli fosse scattato qualcosa dentro.

E allora avvenne il ‘miracolo’: a turno (senza però passarci esplicitamente la palla) tutti noi che stavano a quel tavolo cominciammo, pur prendendolo seriamente, a smontare piano piano e con estrema delicatezza tutte le sue ipotesi su quell’altro tizio e sulla relazione tra questi e lui. Sembrava una danza lenta e silenziosa, piena di cura e impegno. Fu faticossisimo, durò all’inifinito, estenuò tutti i partecipanti. E dissolse, di fatto, una crisi psicotica grave – almeno per un bel po’.

Ora so che fare ‘massa critica’ con la parola è una strategia applicata anche in contesti di prima accoglienza per il recupero da tossicodipendenze. Però quella sera venne fatta da gente che non aveva competenze, né s’era messa d’accordo e che aveva veramente paura dei potenziali esiti negativi per tutti coloro che stavano lì (la comunità!). Venne fatta, e funzionò.

E per me fu per via di quel ‘modello’ che grossomodo condividevamo che richiedeva – come contraltare della libertà che ci veniva concessa dalla comunità – quella disponibilità alla responsabilità e all’impegno in prima persona e senza deleghe che magari può non funzionare, ma che, se funziona, permette in contemporanea la libertà individuale e la convivenza tra esseri umani senza alcuna coercizione. E lo fa dando la possibilità di vivere, e non meramente di sopravvivere.

Diceva Emma Goldman che l’anarchismo “really stands for the liberation of the human mind from the dominion of religion; the liberation of the human body from the dominion of property; the liberation from the shackles and restraint of government. Anarchism stands for a social order based on the free grouping of individuals for the purpose of producing real social wealth; an order that will guarantee to every human being free access to the earth and full enjoyment of the necessities of life, according to individual desires, tastes, and inclinations” (Anarchism and Other Essays), ma accanto a questo bisogna trovare modi per vivere insieme e proteggerci reciprocamente dalla paura, dalla solitudine e dal pericolo di farci (troppo) male l’un l’altro mentre esercitiamo il diritto di libertà e di espressione del nostro essere.

Beh, io credo che qualora fossimo veramente liberi di esprimere pienamente tutto il nostro essere – nella protezione di una collettività intorno che ci ama e ci sostiene – quella violenza, quella paura e quella solitudine che possono derivare dalla nostra completa espressione di noi stessi non esisterebbero neppure.

Nel frattempo, l’anarchia è l’unica risposta a noi disponibile al momento che va già seriamente in questa direzione.

*Di qui, per inciso, tutto il mio fastidio per i contratti in generale, dato che nel mio sistema di pensiero e valori non ho bisogno di pezzi di carta per ‘obbligarmi’ o ‘essere obbligata’ e tener fede agli impegni assunti, ché se me li assumo non trasgredisco!