“There’s no challenge without a crisis. Without challenges, life becomes a routine, in slow agony. It’s in the crisis where we can show the very best in us. Without a crisis, any wind becomes a tender touch. Let us work hard instead. Let us stop, once and for all, the menacing crisis that represents the tragedy of not being willing to overcome it.” (Einstein).
La citazione sopra mi arriva stamane da Brigida, e mai avrebbe potuto meglio intercettare il mio sentire del periodo.
Quando siamo esposti a qualcosa di diverso da quello che è il nostro modo di vedere/sentire/pensare abituale, il rapporto che instauriamo con questo si riduce a sostanzialmente due possibili risposte: rifiuto e accoglienza. Il rifiuto è risolutivo: alziamo un muro, lo teniamo fuori, non ce ne facciamo toccare in alcun modo, così da rimanere identici a noi stessi, all’immagine che abbiamo di noi, o a ciò che vorremmo essere.
L’accoglienza, invece, è più complessa da gestire: ovvero essa può 1) venire presa per venire annientata e metabolizzata senza lasciare traccia (per quanto ciò mi lasci un po’ perplessa: se infatti le nostre cornici interpretative vengono interamente strutturate sulla base delle specifiche esperienze che compiamo nella vita, e di qui ogni nuova esperienza può modificare i limiti di ciascuna cornice così come farli saltare, nessuna metabolizzazione è priva d’un qualche seppur minimo lascito a quel sistema che l’ha metabolizzata).
Si da però anche il caso 2) in cui essa rovesci completamente il nostro modo di vedere/sentire/pensare, ma questa situazione è decisamente rara visto che ormai siamo persone che hanno una certa struttura relativamente consolidata (ovvero un proprio modo di vedere/sentire/pensare: chiamiamole le regole del sistema a livello1 – come direbbe Watzlawick), così come ch’essa 3) possa venire introiettata per ridiscutere/modificare/cambiare quella struttura, e ciò nella direzione di renderci più ‘noi stessi’ ovvero – strumentalmente – per rafforzare ciò che siamo
, l’immagine che abbiamo di noi stessi, o ciò che vorremmo essere.
Facciamo un passo avanti e consideriamo la persona-sistema: se è riflessiva, intelligente, sensibile, va da sé che non può essere pacificata. Il disequilibrio, in lei, non può non essere strutturale, perché troppe domande, senza possibili risposte, le si affacciano di tanto in tanto alla coscienza, e quella mancanza di risposte hai un bel tentare di riderci sopra esclamando ‘sticazzi’, ché tanto il tarlo periodicamente ritorna. Perché quell’assenza di risposta sta alla base di tutta la struttura interpretativa che uno si può costruire sopra, ovvero quella d’un gigante dai piedi d’argilla.
Hai voglia a tentare di tenerlo in equilibrio! 😉
L’esortazione di Einstein è, in questo senso, illuminante, perché ciò cui ci invita è il rifiuto del primo caso – che di fatto rappresenta una falsa crisi, un tenero vento che lascia completamente inalterato il nostro essere e quindi nulla serve se siamo già in disequilibrio e insoddisfatti da questa situazione/sensazione (ché se ne siamo soddisfatti liberi tutti! ne staremmo parlando senza necessità) – e l’accoglienza coraggiosa del secondo e del terzo: sfide che diventano rischiosi cicloni, ma che possono permettere cambiamenti nel sistema a un livello2 ovvero nelle regole che governano gli stessi e che hanno dimostrato di non essere più funzionali.
O meglio d’essere funzionali al mantenimento dello status quo, quindi non solo al permanere d’un sistema che – per forza di cose nel caso degli esseri umani caratterizzato da interrogativi che non hanno risposta – poggia su piedi d’argilla, ma anche che è insoddisfatto nelle regole che lo governano, perché i risultati che ne trae sono sempre di parziale benessere, parziale autenticità, parziale soddisfazione, e lasciano sempre quella sensazione-consapevolezza che ci si sta muovendo sempre su cose tutto sommato piccole, minime, misere, rispetto all’aspirazione interiore a qualcosa di ben più grande, oltre limiti concreti della nostra natura e a quelli autoimposti per ragionevolezza e amor di sopravvivenza. Ovvero trattasi di gioco a somma zero (omeostatico) con l’opportunità esterna e con la vita, con la sola certezza che viene replicata la sopravvivenza come l’insoddisfazione senza che nulla realmente cambi/cambierà mai. Stagnazione.
Se non ci si lascia destabilizzare, in pratica, non si può godere realmente della crisi – che a sua volta non sarebbe neanche corretto e onesto chiamarla in tal modo rispetto ai termini più puntuali di vaga instabilità, noia, insoddisfazione, ché ‘crisi’ identifica un livello superiore, più profondo, a tutto tondo, totalizzante e potenzialmente scardinante la struttura dell’individuo. Di fatto, vaga instabilità, noia, insoddisfazione non sono neanche utili al fine di individuare e magari trovare ispirazione per il cambiamento – che non per forza dev’essere a sua volta ‘rivoluzione’ (ovvero può anche essere ‘metamorfosi’).
Il fine – in ultima analisi – è quello di trovare soluzioni sempre più efficaci verso uno star bene che apre alla felicità più intensa e profonda di contro al rischio relativo della perdita di sé e della propria vita.La differenza rispetto alle modalità d’accoglienza di qualcosa di esterno e diverso che potrebbe destabilizzarci sta tutta lì: nel volerlo controllare e quindi alla fine guardare dal balcone e non saltare, oppure lasciare che ti attraversi, ti sollevi in aria e poi magari ti riposi a terra dandoti la consapevolezza che avevi della ali enormi – per tacer del panorama che hai visto da lassù e dal racconto che riporti alle altre persone-sistemi su quanto questo mondo sia ricco e incantevole 🙂
Grazie Einstein, Bateson e Watzlawick.