“Qui nessuno lavora più, tutti fanno qualcosa di artistico” – ho sentito nuovamente qualche giorno fa questa frase pronunciata dalla voce lenta e depressa del Cheyenne di This must be the place. E ho avuto nuovamente una crisi di rigetto.
Perché io non conosco le condizioni in cui viene pronunciata nel film, ma sempre più – essendo circondata da ‘artisti’ (o sedicenti tali) – questi operano una distinzione tra sé e il resto del mondo per cui veramente pronuncerebbero tali parole con il più truce e offensivo snobismo nei confronti altrui. Convinti della giustezza, plausibilità e assolutezza di tale affermazione e distinzione.
La quale si porta dietro – sempre – ragioni di ordine economico: gli artisti hanno diritto a venire pagati per l’esercizio della loro arte – in quanto nel loro caso è lavoro – dal resto della società, la quale, invece, se ha piacere di esprimersi in qualche modo sarà sempre relegata all’esercizio della pratica artistica in modo amatoriale, hobbistico, con contenuti e produzioni per forza di serie B perché così altri (la critica, il mercato) hanno deciso.
Ecco, anche no.
Non è che personalmente io abbia sempre più dubbi e difficoltà nel riconoscere un qualche valore distintivo in chi si definisce in ruoli che hanno a che fare con l’arte, ma è proprio che la presunta professionalizzazione di tali ruoli, di fatto, è propria d’un certo mondo occidentale che emerge in un ben definito periodo storico in Europa in relazione alla dimensione delle accademie di formazione alla stessa, della critica e del mercato.
Quindi ce n’è già per dubitare del valore, in particolare se assolutizzato/universalizzato, di qualsiasi discorso in merito.
In tutto il resto delle culture umane del mondo tal distinzione non esiste sin quando la critica d’arte Occidentale e l’espansione del mercato (nuovamente Occidentale) non le raggiungono e vi impongono le proprie categorie interpretative (con relativi strafalcioni nell’incomprensione che ogni volta che come antropologa li vedo in atto mi fanno tanto, tanto ridere, perché proprio solo dettati dalla presunzione).
Tutti, in contesti extra-occidentali, imparano le tecniche, perché – premessa comune a tutta l’umanità – tutti hanno un proprio senso estetico, e tutti potrebbero aver qualcosa da dire e condividere. Allo stesso modo, accademie di formazione, critica e mercato sono stati e sono tutt’ora responsabili della deriva agghiacciante di forzare, vincolare, ridurre le potenzialità di godimento umane indicando cosa debba essere considerato bello e cosa no.
Mi viene la pelle d’oca ogni volta che sento un critico o un artista dire di qualche lavoro che sarebbe “brutto”. Il relativismo l’avete mai sentita come prospettiva? Evidentemente no. Ecco, allora, studiate – voi sì – studiate, allargate la vostra conoscenza del resto del mondo prima di pronunciarvi!
Di fatto, la necessità di espressione di sé attraverso forme che ci facciano provare piacere e che facciano provare piacere ad altri essere umani è propria della nostra specie, così che castrarla, ridurla, negarla a chi non avrebbe competenze riconosciute (e, come detto sopra, riconosciute da chi e in base a quali parametri assoluti?) è un atto di violenza e un sopruso.
D’accordo con Joseph Beuys, per me ogni uomo (e ogni donna) è un artista, poiché chiunque deve poter lavorare alla comprensione – e di qui al rinnovamento con la propria azione creatrice (in qualsiasi ambito e modo questa si concretizzi) – di sé e della realtà.
Quindi bene: qui nessuno lavora più. Perfetto: magari sarà la volta buona che ci metteremo a lavorare tutti per sopravvivere. Tutti allo stesso livello, nella medesima quantità/qualità: non alcuni più furbi e altri meno, alcuni più fortunati e altri meno, per cui i secondi devono morire con lavori faticosi, pesanti, umilianti mentre i primi – i sedicenti artisti o coloro che qualche critico o mercante ha definito tali – stanno lì sereni a lanciare proclami contro la società cattiva che non li sostiene economicamente abbastanza!
Fare arte, parlarne, promuovere riflessioni, visualizzazioni, verbalizzazioni, sonorizzazioni del/dal nostro essere umani non è (solo) lavoro. E’ l’urgenza dell’essere nel mondo, e dello stare in relazione con altri che provano la stessa istanza – qualcosa di cui tutti abbiamo bisogno.
E che tutti dovremmo poter fare, senza dover patire l’essere categorizzati come di serie B nel momento in cui vi ci dedichiamo!