Sensazioni en passant sullo scattarsi selfie e metterli in rete
18 Aprile 2015
Alcuni giorni orsono ho visto, in una grande catena di negozi d’abbigliamento, una maglietta (che sembrava un sacco della spazzatura di colore rosa, a onor del vero) sulla quale era stampata la scritta #selfie. Poco interessata al tema, sorridevo del fatto che la scritta su quella maglietta – che avrebbe voluto in qualche modo celebrare l’unicità del sé attraverso la propria auto messa-in-scena in uno scatto – veniva preceduta da un hashtag (e quindi rimandava alla circolazione in un contesto di massa in cui il singolo finisce nel calderone dell’indistinto di tutti quelli che fanno precedere il medesimo termine dallo stesso segno), così come del fatto che la T-shirt era in sé una produzione seriale venduta in una catena d’abbigliamento parimenti seriale.
Di qui cominciai a pensare alle informazioni in merito che mi erano passate sotto gli occhi in questi ultimi tempi: le immagini che tutti i giorni vedo dei miei amici o conoscenti su facebook, quelle riportate dai quotidiani, articoli che discutono del ragazzo che tenta il suicidio perché non riesce a realizzare il ‘selfie perfetto’ (ma esiste qualcosa che possa definirsi ‘perfetto’ a prescindere? Ché per me è sempre un ‘perfetto secondo chi?’), del software che sulla base di criteri standard potrebbe fornire indicazioni su quanta popolarità un’immagine di sé scattata al cellulare e poi diffusa in rete riesca a ottenere e altri ancora che analizzano il rapporto tra selfie e messa in scena dell’identità (come “L’identità tra rete e “realtà”: I used to be Pamela” di Massimo Airoldi).
Quest’ultimo mi fornisce la premessa per buttare giù qualcosa, senza alcuna pretesa di elaborare affermazioni incontrovertibili (oltretutto sulla base di una mia assoluta incompetenza e ignoranza sull’argomento) né con l’intenzione di voler approfondire il discorso.
Si prendano per ciò che sono: appunti di sensazioni.
Massimo Airoldi scrive che “dagli anni ’50 ad oggi il numero dei palcoscenici sociali a disposizione è cresciuto in maniera esponenziale, in particolare per i membri delle classi privilegiate del mondo” cui si accompagna il fatto che “oggi le nostre sfaccettature identitarie non si contano più. Si tratta di un processo di espansione che, nella vivida descrizione di Joshua Meyrowitz, inizia con il diffondersi dei media elettronici tradizionali (televisione in primis), che avrebbero contribuito all’indebolimento delle storiche identificazioni religiose, di genere, di classe e alla creazione di nuove identificazioni, fluide e de-localizzate. La nuova mediatizzazione digitale ha ulteriormente accelerato il medesimo fenomeno, incrementando sia il repertorio di parti che possiamo recitare, sia il numero delle situazioni adatte per la messa in scena”.
Come antropologi siamo usi al fatto che, quando parliamo di identità, questa – anche quando individuale – non è mai uguale a se stessa, perché cambia nel tempo (non siamo più ciò che eravamo 10 anni orsono) e nello spazio (ovvero cambia di istante in istante in base all’esposizione all’alterità): al contrario di ciò che il termine sottintende, essa non è mai uguale a se stessa, bensì è ‘fluida’ (prima caratteristica). Inoltre essa è composita (seconda caratteristica), perché sintesi dell’accorpare in un unico sé ‘scarti differenziali’, ovvero scelte – rispetto al panorama delle possibili opzioni disponibili – che escludono altri elementi che non vengono scelti. Questi elementi non scelti potrebbero però venir scelti da altri per la definizione della propria identità, pertanto (e infine) l’identità è contrastiva (terza caratteristica), ovvero può venire conosciuta solo attraverso il confronto con l’alterità di cui ha bisogno per esprimere la propria differenza da quella e quindi la propria specificità.
Di contro a chi interpreta quindi la pratica dei selfie – così come altre modalità di messa in scena di sé meno visuali, ma parimenti dense quali gli status di facebook, per citarne uno noto – come strumento per cercare la condivisione e appartenenza, io la vedo inscritta nei processi di richiesta di ‘distinzione’, ovvero di riconoscimento identitario, e nelle dinamiche del rapporto tra identità reale e identità virtuale degli individui. Dove la prima è più ‘reale’ solo perché non trascende la corporeità (la fisicità e quindi la sensorialità) degli individui, ma dove ciascuno controlla (o non controlla) già come vuole mettersi in scena per venire così riconosciuto dagli altri (ovvero ottenere il riconoscimento della propria identità così come lui/lei si percepisce e/o desidera venire percepito/a).
Una macro differenza tra i due piani (al di là delle loro specificità e pensando unicamente ai soggetti in gioco) – per come la percepisco io – sta forse nell’ampiezza e nelle caratteristiche del circuito in cui avviene la propria messa in scena identitaria, lo scarto rispetto all’alterità e l’eventuale richiesta di riconoscimento della propria identità come ‘differenziata’ da parte dell’altro: dove in pratica prima ci si scattava immagini come testimonianza di momenti privati per sé, per i propri famigliari o per i propri amici concreti e a questi si riportavano tali scatti per ottenere, per contemporanea appartenenza e distinzione, il riconoscimento di sé e della propria identità (quindi in un ambiente relazionale costruito nel tempo, magari anche in modo impegnativo, con comunque una presenza fisica fatta di infiniti elementi e di maggiore ricchezza, sviluppo e consolidamento della fiducia e quindi del valore da assegnarsi all’interpretazione dell’evento e dell’identità rappresentati), ora tale richiesta di riconoscimento della propria distinzione avviene con l’apparente condivisione immediata con un pubblico più esteso, che spesso fugge al di là della nostra esperienza concreta (torna la solita domanda: quali sono i nostri amici su facebook? Con quali/quanti abbiamo costruito nel tempo una relazione reale tanto che le loro parole abbiano realmente un senso per l’identificazione e il riconoscimento della nostra identità? Di chi e di quanti ci possiamo ‘fidare’ del giudizio?).
Ovvero la richiesta di riconoscimento va in territori che non sono una nostra ‘comunità’ concreta di riferimento – persone interessate a stare in relazione intensa con noi. Passano a fianco, sono sbadate, sono disinteressate, guardano di sfuggita, mettono un like o lanciano un commento estemporaneo di approvazione/disapprovazione.
Chi mette online i propri selfies, tra le varie ragioni (tra le quali magari un’attitudine esibizionista, una certa intenzionalità politica, sociale, ecc., e via dicendo), secondo me cerca anche questo riconoscimento di sé come singolo, unico, differenziato da infinite altre identità, così come farebbe con chi ha vicino a sé. Il problema è che il funzionamento delle microcomunità della relazioni faccia-a-faccia è molto diverso da quello del comunità virtuali che annoverano anche individui con i quali magari non ci incontreremo mai di persona perché dall’altra parte del pianeta. Quindi l’operazione di differenziarsi da questi per ottenere il riconoscimento del proprio sé è quanto meno rischiosa, quando non fuorviante. Perché le regole del gioco sono diverse: innanzi tutto ‘contestualità densa’ nel primo caso che crea un contrasto nel qui-e-ora i cui esiti saranno condizionanti per il domani del sistema relazionale di contro a una ‘contestualità labile’ nel secondo, dove già non è detto che gli interlocutori si conoscano più di tanto, intrattengano tra loro un qualche rapporto di fiducia reciproco, e infine siano interessati ad agire nell’interesse di questo riconiscimento dell’identità da parte di chi la mette in scena, senza oltretutto averne dimenticato l’esistenza già il giorno dopo.
Ha un qualche valore un eventuale riconoscimento del genere? Chiaramente no. Eppure viene cercato lo stesso. Perché?
Appadurai, Hannerz e Bauman possono orientarci nel tentare di dare una risposta: quella dell’assenza di comunità e della fragilità dei legami che nella contemporaneità ci tengono uniti gli uni agli altri, per cui cerchiamo altrove le conferme delle quali abbiamo bisogno per dire a noi stessi che esistiamo, siamo esseri umani concreti, e ciascuno di noi è in qualche modo unico e distinto dagli altri.
Ma abbiamo bisogno che siano gli altri a farci da specchio, e a riconoscerci tale valore, altrimenti – da soli – siamo come l’albero che cade nella foresta senza nessuno che l’oda: avrà fatto rumore nel cadere? Ovvero: sarà esistito veramente o no?
Ché oggigiorno, “se non sei su facebook con la fotina, non esisti”.