CRISTINA BALMA-TIVOLA

KRI "muovere [k] liberamente [ri]" | STI "stare [s] in moto [ti]" | NA "effetto [ā] del soffio vitale delle acque [n]"

Andando oltre l’essere “costretti a sanguinare”

Complice l’amico suadente che l’ha trascinata fuori dalle sue amate quattro mura, ieri sera la sottoscritta è andata a vedere la performance della pornoterrorista Diana J. Torres – le cui immagini fotografiche e video, al contrario delle parole che aveva letto in un libro da poco tradotto in italiano con una campagna apposita di crowdfunding, l’avevano ampiamente distanziata dalla madrilena.

Eh sì, perché Diana scrive critiche violentissime ampiamente condivisibili rispetto alla castrazione e alla censura di libertà d’espressione, movimento e scelta cui siamo sottoposti come esseri umani dall’intreccio perverso tra sistema capitalista, potere politico, stati e religioni (vi racconta nei dettagli Slavina nell’articolo Il Pornoterrorismo spiegato a mia madre), ma la dimensione performativa – caratterizzata dal ricorso ad aghi, ferite autoinferte, sangue, secrezioni vaginali – porgeva il fianco al mio sospetto per più d’una ragione.
Di fatto, cresciuta nel punk, io di ferite autoinferte come ‘provocazione’ ne ho un po’ due scatole così (vorrei s’andasse oltre, se possibile), così come il loro uso metaforico nella dimensione performativa a indicare la violenza che i nostri corpi subiscono quotidianamente da parte dello stato, della religione (in primis cattolico-cristiana) e della società mi lascia indifferente. Parimenti non mi sconvolge una donna nuda davanti al pubblico, e semplicemente mi annoia se viene masturbata e squirta in scena.
Mi distanziava infine l’immagine d’un passamontagna e d’una bomba-dildo in mano nella fotografia della copertina del libro – a corredo del concetto di ‘pornoterrorismo’ che riconosco avere un senso e una coerenza cristallina all’interno del discorso di Diana.
Per tutte queste ragioni, quindi, l’ultima cosa che avrei voluto fare ieri sera sarebbe stata andare a vedere il suo spettacolo. D’altra parte, mi rimaneva il dubbio sulla base delle parole calde che al tempo stesso emergevano nel suo libro – parole di cura, abbraccio, pacificazione. E, in alcuni video di presentazione dello stesso volume, la visione di quel suo sorriso aperto, dolce e affettuoso verso ciascuno spettatore, indicativo di un’attenzione particolare a ognuno che fa la differenza nel modo in cui il performer percepisce la propria relazione col pubblico, e quindi anche le ragioni del suo stare  in scena (e qui so che Marco Gobetti mi darebbe ampiamente ragione).

Così ci sono andata. E ho fatto bene. Ma non è mia intenzione scrivervi la cronaca né farvi una recensione della performance. Vorrei solo limitarmi a condividere ciò che ha colpito me, e perché alla fine sono stata felice d’avervi partecipato.

Diana comincia lo spettacolo tirando sale – metafora della cocaina che va e viene attraverso la frontiera tra Stati Uniti e Messico, quella stessa ove uomini e soprattutto donne cadono come mosche ammazzati da polizia, trafficanti, mafiosi, e individui qualunque ormai così ai margini della propria umanità da assumere atteggiamenti bestiali nei confronti di altri esseri umani – e aprendo così a una riflessione da una parte su ciò che sta dietro le nostre scelte (“non vi dico di non tirare coca, ma d’essere consapevoli che quando lo fate state anche tirando un po’ di respiro, di vita d’una persona che ora è morta“), dall’altra sui confini, sui limiti, sulle frontiere metaforiche che non si devono attraversare e oltrepassare perché tale atto ci porta “fuori dalla norma(lità)” e ci rende devianti, sbagliati, inaccettabili alla società.

“Tirare il respiro, la vita di altri esseri umani” – questo mi funzionava. Poche parole chiare e – nella loro semplicità – foriere d’un contenuto devastante.

Ho continuato a guardare, aghi, sangue, perdite mestruali. Certo, d’impatto per chi assiste a tali performance per la prima volta, molto meno per chi già è uso a tal tradizione o vi legge altre linee di fuga ancora, come nel mio caso. In pratica, questo tipo di comunicazione non funziona per me, sia perché certi contenuti li ho già acquisiti e superati, sia perché come le strategie di comunicazione adottate le identifico con un immaginario che nella mia concreta esperienza personale risale a 30 anni orsono (che a sua volta s’ispira a pratiche di 20-30 anni prima ancora).

Ma magari possono funzionare per altri spettatori di altra età, formazione e (in)consapevolezza e dar loro stimoli sui quali riflettere in merito alle perversioni di questa società delle quali siamo vittime e complici, e dei modi in cui potremmo cominciare a riflettervi criticamente sopra e provare a cambiarli a partire dalla nostra vita quotidiana.

Di fatto, il giovane che inizialmente ridacchiava nel vederla nuda, e la canzonava dalle ultime file mentre lei stava allestendo le strisce di sale-coca, cominciò a deglutire quando Diana pronunciò la frase sul tirare il respiro della vita altrui. E di lì cambiò modalità d’attenzione per il resto dello spettacolo.

Per tale ragione, della performance in sé, da quel momento in poi, vorrei evitare di raccontarvi – ve la vedrete voi, se ne avrete l’occasione, e ne ricaverete le vostre critiche e riflessioni, anche a livello di strategia comunicativa adottata.

Ma vorrei dirvi che ciò che ha fatto stare bene me è che anche in scena Diana parla con parole profonde, calme, salde, protettive e incoraggianti, e alle sue parole fa da supporto un corpo imperfetto – secondo i valori della normatività – ma accogliente come un abbraccio. Diana è, in pratica, una che ci crede sul serio e che sul serio ama con tutta se stessa, e che non ha paura d’essere generosa e darsi completamente allo spettatore per accompagnarlo a non avere paura.

Di qui la proposta d’un piccolo esorcismo collettivo – perché “non abbiamo bisogno di religione, ma abbiamo decisamente bisogno di magia” – in cui buttare tutto il dolore delle parole cattive con le quali siamo stati additati se/quando siamo usciti dalla norma, e cancellarlo, se possibile, accanto e con la complicità di altri nostri simili che ne hanno passate di analoghe.
Un esorcismo ateo senza artifici rituali new age, né fuffa di sorta, senza tanta ‘scena’ e senza troppe pretese, in cui, pur mantenendo lei uno sguardo lucido sino a alla fine, la sensazione rimanente nel pubblico è stata quella del venire portati a riconoscerci una volta di più simili nel dolore che abbiamo attraversato, e ad ascoltarci e comprenderci reciprocamente un po’ di più come persone tra persone, senza muri e distinzioni (tanto care al potere che da queste trae giovamento) a separarci.
Se volete saperne di più, andate sul suo sito o leggete questa bella intervista qui.