Cosa non ho fatto per un po’ d’avventura, d’amore e di pace
11 Ottobre 2012
Questa frase veniva spesso ripetuta da tal Lizzie Davis, vagabonda, a Bertha Thompson, pure lei vagabonda e autrice* del bellissimo libro Box-Car Bertha in cui quest’ultima narra dei suoi giri in lungo e in largo per gli Stati Uniti prendendo a sbafo treni merci.
Queste parole mi risuonano così familiari che potrebbe essere il mio stesso intercalare!
In questi giorni ho ripreso in mano quel libro, scritto da una donna che a partire dai primi del Novecento abbandona adolescente la casa materna insieme alla sorella e comincia a gironzolare – appunto su treni passeggeri e treni merci, ma anche in autostop (malgrado le poche auto circolanti all’epoca) – facendo ogni genere di cosa per guadagnarsi da vivere in ciascun luogo che attraversava, dai lavori come impiegata (era dattilografa) a quelli di fatica (cuoca, lavandaia, lavori di pulizia) da attività illegali fino alla prostituzione, e di qui alla ricerca sociale (un percorso simile a quello di Nels Anderson, autore del primo testo sociologico sui vagabondi americani dal titolo The Hobo).
Rileggendolo, due elementi mi hanno colpito: il primo è che questa donna, pur senza un percorso d’educazione formale continuativo, aveva sviluppato un’ampia conoscenza in più discipline umanistiche e sociali grazie alla presenza man mano di personaggi, con i quali era entrata in contatto, che l’avevano istruita, così come con la lettura continuativa personale di opere di politica.
Ma un capitolo importante della sua formazione era dovuto anche alla frequentazione – seguendo il nonno che le ripeteva sempre “più si ascolta, più si impara e più si è in grado di pensare con la propria testa” – di dibattiti e conferenze presso sindacati e associazioni che a quanto pare erano abituali nell’America di quegli anni.
Che invidia, se penso alla miseria intellettuale di tanti incontri cui ho partecipato qui da noi in quest’ultimo decennio!
L’altra cosa che mi ha stupito era la relativa frequenza con cui si incontravano sorte di comuni anarchiche autogestite in cui i lavori venivano svolti insieme dai membri della comunità, tutta l’economia e la partecipazione al sistema era in termini di dono gratuito e i bambini venivano cresciuti e nutriti da tutti – tanto che Bertha lascia lì la figlia per un po’ di anni senza neanche dover concordare con alcuno tale decisione e le conseguenze di questa.
Qualcuno se ne sarebbe preso cura, e quel qualcuno avrebbe agito nel modo ‘giusto’ – cioè con affetto, senza aspettative se non quella di trasmettere valori d’onestà e solidarietà, e senza censurarla nei suoi desideri anzi incoraggiandola.
E in tutto questo si viaggiava con mezzi di fortuna, e si sopravviveva pure – in qualche modo. E s’era felici, anche. E non perché ci si accontentasse, bensì perché ci si appassionava a tutto, si respirava oppressione e si reagiva con la massima libertà, e si lottava per quelli che erano considerati i propri diritti come esseri umani.
*Il libro è la trascrizione del racconto autobiografico di Bertha Thompson al dottor Ben Reitman – medico dei poveri, abortista, anarchico e agitatore, non a caso anche a lungo compagno di Emma Goldman.