Pisa (Italia) /2
5 Dicembre 2011
Il caldarrostaio sta allestendo il banco: ha appena acceso il fuoco e comincia a versare le castagne, appendendo parimenti i sacchetti per le diverse porzioni e verificando mescoli e palette per rigirarle e raccoglierle. E’ un giovane nordafricano, magro e sorridente – e mi dà da pensare il fatto che svolga una professione così ‘antica’ anche per noi italiani, e senza dubbio distante e inedita, come pensiero, da ciò che poteva essersi immaginato come proprio lavoro futuro prima di emigrare.
D’altronde – al di là della precarietà che qualsiasi attività imprenditoriale reca in sé e ammettendo che si tratti, in questo caso e per questo giovane, di ‘libera’ professione – è un lavoro regolare e vero, in più con una tradizione anche romantica e un immaginario specifico in Europa: “Come si sentirà (oltre che accaldato) un nordafricano nello svolgerla?” – mi chiedo. Una domanda che credo risenta del ricordo della descrizione dell’emozione nel vedere per la prima volta in vita sua la neve da parte di una mia studentessa marocchina, quando a 18 anni la sua famiglia si ricongiunse col padre emigrato nelle Alpi piemontesi ed ella abbandonò la cittadina natale sempre calda nel sud del suo paese per entrare in Italia in concomitanza con uno degli inverni più rigidi degli ultimi anni nel nostro Paese.
Rifuggo nuovamente la folla che ‘fa le vasche’ – come si dice da noi – e mi infilo in un’ennesima viuzza, verso la luce e il sole, leggermente in salita. Mi viene incontro un odore acre di frizione bruciata (che ben conosco perché nel tempo ne ho bruciate due – quella dell’auto e quella d’un mio vecchissimo impianto stereo) cui si sovrappone un lieve odore di fritto affatto sgradevole. Ripenso all’olfatto – a quante informazioni ci fornisca questo senso e a quando poco frequentemente nei nostri testi ne trascriviamo e salviamo la memoria.
Qui un’altra piccola piazza porticata da un lato rivela colori e contrasti cui la mia incompetenza fotografica non rende giustizia.
Ancora oltre la passeggiata sotto il porticato diventa una via in cui la vita vera si dipana – con banchi di frutta e verdura, zingari, edifici in ristrutturazione e il classico odore disidratante di sabbia e calcinacci.
Negozietti dell’usato, enoteche e bar di susseguono lontani dall’eco di un’altra vita nella commerciale via parallela. Un’insegna offre una comunicazione curiosa per una libreria che commercia testi di seconda mano: “Parole contro l’effimero”. In effetti la parola scritta sottrae all’oblio…
Di fronte uno stand gestito da un ragazzo indiano vende libri e sciarpe – tutti indistintamente a 1 Euro. Compro un romanzo poco conosciuto che potrebbe rivelarsi interessante – se non altro in treno potrò dedicarmi alla cosiddetta lettura ‘al chilo’ per meno dell’affare di quotidiano+rivista cui talvolta cado ancora stupidamente il sabato mattina…
Non so quanto tempo sia trascorso dall’inizio della passeggiata, e periodicamente lancio occhiate alle panetterie e alle pizze al taglio famelica. Eppure ancora non mi fido a mangiare farinacei così tranquillamente… Un vero peccato cui sottrarsi con la forza di volontà al cartello “dolci tradizionali medioevali con zibibbo”. Che tali ricette siano veramente medievali o meno, la visione oltre la vetrina è una delizia per gli occhi con dolci così intarsiati di marmellate, mandorle, uvetta e via dicendo.
Mi allontano dopo aver contemplato a lungo le bottiglie di Vin Santo lì esposte – e il loro prezzo chiaramente turistico – e sulla facciata di un palazzo universitario candido (per quanto ricoperto dalle solite scritte rosso/nere) leggo una perfetta comunicazione che ben rende lo spirito con cui una parte dei protagonisti della situazione risponde all’apertura dell’anno accademico:
Ah, che mirabile dono della sintesi! Io questi già li adoro. Ennesimo sorriso.
In compenso mi sono persa. Non ho assolutamente idea di dove mi trovi, mentre un’amica mi telefona e si chiacchiera amabilmente e serenamente mentre cammino. Mah! Prima o poi chiederò indicazione a qualcuno per ritrovare ‘la retta via’…
Al di là del muro una serie di edifici in stile littorio ospitano ospedale e facoltà di Medicina. Mi sorprendono gli alberi, che mescolano piante che nel mio immaginario afferirebbero a contesti e latitudini differenti – pini, querce, pini marittimi e palme.
Persa, proprio persa – definitivamente. Mi prendo il tempo d’osservare da vicino le piante, complice un gradevole odore di resina che mi fa sempre sentire bene. Una è piena di frutti – ghiande per la precisione – e non posso evitare di pensare a Cip e Ciop così come a L’era glacialementre ne guardo una da vicino.
Continuo la strada e arrivo a un bivio. Nulla è più vagamente famigliare in questa zona, sono scomparse le case vecchie della zona centrale – così rassicuranti – ed edifici nuovi, sempre di piccole dimensioni ma dall’architettura incerta e un po’ anonima degli anni ’70 si palesano davanti a me. Mi piace però di Pisa questo suo non sviluppo verticale, per cui – almeno ancora in questa zona, altrove non so – continuo a non incontrare edifici oltre i 3, 4 piani. Proprio questo mi permette di intravedere la torre in lontananza, sulla mia sinistra, e quindi di scegliere questa direzione – nel caso avessi avuto dubbi che invero non avrei avuto – nel proseguire.
(continua…)