Etnografia dello spazio urbano I – La nuova casa, un’atmosfera famigliare, il palazzo di fronte
15 Dicembre 2007
Sono venuta ad abitare qui nell’agosto del 2004. L’alloggio è quello dei miei nonni, ristrutturato a mia misura per farne la MIA casa, quella alla quale poter tornare periodicamente – nel resto della vita – qualsiasi scelta, viaggio, spostamento temporaneo avessi deciso di fare.
Non abitavo qui nel periodo in cui ci vivevano i miei nonni, ma l’odore delle pietanze preparate per pranzo è qualcosa rimasto invariato da trenta anni e suona famigliare e protettivo alle mie narici. Questa è la ragione per la quale in questa casa mi sento così al sicuro e tranquilla – rispetto alla casa precedente in cui la sensazione di estraneità e pericolo erano costanti.
Un’altra ragione di questa nuova (vecchia) sensazione è sicuramente dovuta alla struttura stessa del palazzo, un’ex-casa popolare, come erano tutte quelle presenti in questa zona con le quali condivide la medesima semplice e scarna fisionomia.
Niente di speciale e tutto molto ‘vicino’. Tale prossimità ai miei dirimpettai era un’esperienza inedita, quando mi sono trasferita qui: l’alloggio in cui avevo vissuto sino a quel momento era al decimo (ultimo) piano e non aveva nulla intorno – solo il vuoto – e da lì si vedevano le colline da un lato e le montagne dall’altro.
Ora avevo dei vicini! Cominciai a chiedermi chi fossero e come vivessero. La mia curiosità antropologica e il mio desiderio di osservare e immaginare vennero profondamente stimolati, ma d’altra parte, essendo a mia volta persona riservata, mi fermai a pochi dettagli e non indagai oltre.
Verificai che la mia dirimpettaia, dall’altro lato della strada al medesimo piano, era una ragazza straniera – desumevo ciò dai suoi tratti somatici – ma non compresi subito la sua origine culturale. Nell’appartamento sotto il suo c’era invece una ragazza visibilmente orientale, che passava la maggior parte del tempo a lavare, stendere, bagnare i fiori e telefonare. Provai infine un’invidia pazzesca per le piante di quelli che vivevano al secondo piano del medesimo palazzo, che erano riusciti a rendere il loro balcone una ricchissima serra.
Iniziai a vivere qui nel momento in cui cominciai la scrittura della tesi di dottorato. Al tempo era ‘abitabile’ solo la camera da letto e il bagno, anche se in questo non c’era ancora l’acqua calda (ed essendo estate ciò non rappresentava un problema). Il mio tempo lo passavo interamente al computer nell’area studio della camera – di fronte alla quale c’era appunto quest’altro palazzo.
Tenevo le finestre aperte e il pomeriggio il sole colpiva in pieno la zona notte, riscaldandola ulteriormente. Conobbi ‘a distanza’, e con profondo disappunto, il ragazzino adolescente del terzo piano (sempre nel palazzo di fronte), il quale – approfittando dell’assenza dei genitori – passava i pomeriggi ad ascoltare la radio al massimo volume, riempiendo questa piccola via di soli quattro numeri civici della peggiore musica commerciale in circolazione. Le maledizioni e le minacce di chiamare le forze dell’ordine che puntualmente lo raggiungevano dai diversi balconi nei pomeriggi afosi mi permisero di conoscere i volti di metà degli abitanti di queste case – ciascuno con la propria modalità di comunicazione verbale e imprecazione. Era tutto molto ‘folk’.
Ero entusiasta d’avere finalmente uno spazio mio. Immaginavo che sarei stata finalmente disordinata e caotica come – di fatto – sono, ma alla fine diventai maniacale e ordinatissima, come un animale che protegge la sua tana.
Scrivevo tutto il giorno e a metà del pomeriggio mi concedevo una merenda o un the. Le mie pause coincidevano con quelle della mia dirimpettaia straniera, la quale ogni tanto andava sul balcone a fumarsi una sigaretta. Cominciammo a vederci così, e inizialmente ci sorridevamo e basta. Poi, man mano che ci abituammo a incontrarci ‘visivamente’, arrivammo anche a salutarci a voce alta e a chiederci come andasse da una parte all’altra della via – senza mai andare oltre.
Una sera ci fu un tam-tam televisivo e radiofonico per un atto simbolico nazionale in ricordo della strage di Beslan. La notte tra il 4 e il 5 settembre 2004 – ovvero il giorno dopo questo fatto – echeggiò la proposta di lasciare una candela accesa fuori dalla propria finestra.
Comprai un lumino al supermercato e lo misi sul davanzale interno della camera da letto (temevo che all’esterno una folata di vento lo facesse cadere), lasciando le tapparelle aperte in modo tale che lo si potesse vedere da fuori.
La mia dirimpettaia aveva acceso anche lei la sua candela e fui felice di vedere che una persona migrante, ormai residente qui, aveva partecipato come me alla commemorazione delle vittime di un accadimento entrato nell’immaginario collettivo di quel momento.
Quella sera sentii nuovamente che questa casa era finalmente la mia ‘casa’ – il luogo al quale tornare.